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Intervista a Padre Aldo: l'Africa, l'Etiopia, il lavoro del missionario e il suo rapporto speciale con Castiglione e l'Abruzzo

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Da quanto tempo fai il missionario in Africa?

Allora, sono andato in Etiopia alla fine del 1979 dopo aver fatto tre anni in Abruzzo e Molise il promotore vocazione: andavo in giro nei paesi e nelle scuole a parlare delle missioni. Poi dopo tre anni, essendo comboniano, mi hanno chiesto di andare in una missione in Etiopia. Sono andato li anche perché quando ero in noviziato si sceglieva la lingua e secondo la lingua ti destinavano dove si parlava inglese. E in Etiopia di parlava tutto tranne che inglese! Dal 1979 fino a praticamente due anni fa sono sempre stato in Etiopia. Poi sono ritornato e mi sono incardinato nella Diocesi di Trivento. Poi sono nuovamente ripartito ma siccome non mi davano il permesso di lavoro, in Etiopia entri non come prete ma come persona legata a un progetto di scuola, asilo o medicina, sono tornato in Italia perché in quel periodo non davano facilmente i permessi. Ora sono stato qui per un altro anno ma un Vescovo etiope sembra che stia risolvendo il mio problema del permesso. Aalla fine del mese torno al mio paese, in provincia di Bergamo, e alla fine di marzo ripartirò per l’Africa.

Quindi pur essendo di origini lombarde la tua attività pastorale l’hai svolta prevalentemente in Abruzzo.

Si perché dal 2008 sono incardinato nella Diocesi di Trivento quando sono uscito per diversi motivi dai Comboniani di cui non condividevo alcune scelte. E siccome io non sono uno che sta li a guardare ho fatto questa scelta.

Il rapporto con l’Abruzzo è quindi precedente al tuo lavoro nelle missioni?

Si è giusto. Io dal 1976 al 1979 io sono stato in Abruzzo. Avevamo la casa a Sulmona e io giravo la Marsica per andare nei paesi e nelle scuole. Adesso mi è stata fatta questa proposta di ritornare in missione in una tribù dove ho già lavorato in passato sette anni e dicui conosco ancora la lingua. Ora devo ripassarla un po’, ma siccome non sono rincoglionito del tutto, ce la faccio ancora e ritorno giù più che volentieri. Anche se uno mi dice “hai una certa età” e cosi via, il mio cuore è la giù perché ci sono stato per 36 anni. L’Etiopia fa parte della mia vita. Preferisco andare a finire lì la mia vita. L’Etiopia è molto grande, cinque volte l’Italia, e ci sono 72 tribù. Ho avuto la possibilità di lavorare in diverse zone e con diverse tribù: Sidao, Amara, Oromo, Gugi e Gedeo. Fa dunque parte della mia vita.

L’amarico è la lingua ufficiale?

Si, esatto.

Ma è uguale per tutte le tribù o ognuna ha una sua lingua particolare?

Allora, fino a un po’ di tempo fa l’amarico era la lingua nazionale ovvero la lingua nazionale degli Amara che hanno dominato l’Etiopia per tanto tempo iniziando da Hailé Selassié che era Amara. Da un po’ di tempo ogni tribù da importanza alla propria lingua e hanno iniziato a scrivere i libri scolastici nel loro dialetto locale che nel 1979 erano solo lingue orali. Noi, allora, iniziammo a fare un lavoro di traduzione di testi biblici usando il nostro alfabeto.

Quindi tu hai dovuto studiare la lingua locale?

Si. Sono stato un anno ad Addis Abeba a studiare l’amarico, che è scritto in un modo diverso dal nostro, ed è una lingua abbastanza difficile. Dicono che è la lingua degli avvocati perché con un termine tu puoi dire diverse cose e quindi va bene per i tribunali. Però è una bella lingua. Non è difficile come l’arabo anche se come l’arabo e l’aramaico che parlava Gesù è una lingua semitica.

Nella specifico l’attività della missione in cosa consiste sia sul piano religioso che su quello pratico-sociale?

In qualche modo le due cose sono legate. Una missione parte sempre da due priorità: scuola e clinica. Quando andai nel 1979 nella zona dei Sidamo le scuole erano pochissime e la maggior parte erano scuole di missione. La prima cosa che si fa in missione è aprire una scuola perché è attraverso di essa che porti l’emancipazione in tutti i sensi. E poi c’è la clinica che veniva portata avanti dalle suore. Poi dalle scuole e dalla clinica iniziava anche un lavoro di evangelizzazione. Quello che è interessante dell’Etiopia è che siccome c’era un governo marxista-leninista tu non potevi insegnare religione nella scuola perché c’erano protestanti, pagani, ortodossi, musulmani. Era quindi una scuola laica, che dovrebbe essere cosi anche in Italia ormai, e chi era interessato, ad esempio, a conoscere la religione cristiana frequentava il corso per catecumeni. Si partiva sempre dagli adulti e dalle famiglie e si formavano delle comunità, anche se le priorità restavano la scuola e la clinica. Dunque non eri tu missionario che andavi a cercare loro, ma erano loro a scegliere se seguirti in un percorso di fede.

Ecco questo è un punto interessante. L’accusa che viene spesso rivolta ai missionari è quella di proselitismo: gli aiuti in cambio della conversione al cristianesimo. Qual è la tua opinione?

Questo modo di fare la missione può esserci stato in altri posti dove la colonizzazione ha portato anche la religione, ma questo non è successo nell’Etiopia del sud che era all’80% pagana. Però questa accusa di proselitismo e conversione mi fa anche un po’ incazzare. Da noi ci sono tre anni di corso e se uno alla fine vuole essere battezzato lo fa, altrimenti nessuno è obbligato ne a fare il corso ne a battezzarsi. Certo, che poi il tuo  lavoro sociale crei delle simpatie e la gente desideri  conoscere la tua religione è un passaggio, però a scuola e in clinica c’è sempre posto per tutti. Nessuno guarda se sei cristiano, musulmano, protestante o pagano.

Ecco a me interessava molto chiarire questo punto anche perché ionon essendo cattolico, ero curioso di sapere il tuo punto di vista.

No, non preoccuparti. Su questo aspetto capita che i cattolici siano più radicali di quanto non lo possa essere ad esempio tu. C’è un aspetto particolare dell’Etiopia. Quando sono andato la prima volta, l’Etiopia era governata da un dittatore comunista e, come ti dicevo, noi non entravamo come preti missionari ma come persone legate ad un progetto, ma il governo ci ha sempre lasciati liberi di far conoscere la nostra religione. Ma mai, però, di insegnare la religione nelle scuole. Era una scelta che io trovavo giusta anche perché penso che anche qui da noi non ha molto senso insegnare religione nelle scuole.

Sei il primo prete che io conosca a dirmi una cosa del genere.

Sai, una volta forse aveva senso. Ma oggi che ci sono diverse religioni presenti se uno vuole avvicinarsi da una fede fa un corso. Quello che però ho trovato interessante in Etiopia è questa laicità. Noi non abbiamo mai avuto problemi col governo, ovviamente se tu seguivi le regole del governo. Non potevi parlare di politica perché sapevamo che in ogni comunità o villaggio cristiano c’erano delle spie: se sapevano che tu parlavi male del governo ti prendevano e con un aereo ti rimandavano a casa. Molte chiese protestanti furono chiuse dal governo perché facevano politica e parlavano contro la dittatura. Certo, poi uno può dirti: “ma allora tu eri alleato con la dittatura”; però se volevi restare li e fare del bene dovevi stare zitto e non fare politica. 

E comunque sono i popoli a doversi liberare dai dittatori, non è che arrivi dall’esterno …

Certo. Che poi la religione porti anche a un discorso di libertà è vero, ma ancora oggi in Etiopia questo non è successo. Li oggi c’è una tribù dei Tigrini che domina su tutti. Il cammino della democrazia è un cammino lungo. Poi in Etiopia siccome ha dominato una delle tribù più capaci si è sempre mantenuta una situazione di pace tra le 72 tribù. Se non c’è un governo forte che le controlla rischiano letteralmente di “sbudellarsi” tra loro. C’è da dire che se da un lato la dittatura non ha dato libertà dall’altro ha mantenuto uno status quo di pace che a volte può essere più importante della libertà, almeno in alcuni momenti.

E qual è la condizione della donna in Etiopia?

Quando io aprii le prime scuole su 150 ragazzi c’erano solo 3 o 4 ragazze, che erano poi le figlie dei maestri. Le ragazze a scuola non venivano assolutamente. Oggi non è più così. In oltre trent’anni sono state costruite scuole governative e le ragazze che vanno a scuola sono tantissime.  In 36 anni il governo, seppur criticato, ha lavorato molto sulla scuola e anche sulle infrastrutture.

C’è una curiosità che volevo chiederti. In che modo si riesce a non essere percepiti dalla popolazione locale come persone che portano aiuto piuttosto che come colonizzatori? L’Etiopia ha subito anche la durissima colonizzazione italiana e questo può essere un aspetto sensibile.

Guarda, la zona dove sono stato io nei primi 25 anni non era stata colonizzata dagli italiani e dunque non c’era il ricordo della colonizzazione. Se poi sali verso Addis Abeba si, li il ricordo c’è. Ora però, e lo dico non perché sono italiano, da quello che ho sentito gli italiani sono percepiti come i migliori tra i vari colonizzatori. La dominazione italiana, pur essendo stata una colonizzazione, per molti etiopi ha lasciato anche strade, infrastrutture e insegnato diversi lavori.

Quindi dal tuo punto di vista è stata vissuta in modo diverso dalla Libia?

Si. Negli ultimi anni, specialmente tra i giovani sta tornando un sentimento anti-italiano. Ricordo che una volta andando da un anziano gommista un giovane mi prese in giro perché ero italiano. L’anziano meccanico mi disse: “non ascoltarli. Se gli italiani fossero stati qui altri dieci anni l’Etiopia sarebbe stata diversa”.  C’è stata per esempio, la vicenda della restituzione della stele portata a Roma dal fascismo. La vicenda in realtà partì da un professore inglese per ragioni politiche. La stele portata a Roma, tra l’altro, fu pagata con la costruzione di due ospedali. A questo professore vorrei dire che se i musei inglesi sono così ricchi è proprio perché gli inglesi colonizzatori hanno rubato in tutto il mondo. Di persone che hanno un ricordo diretto degli italiani adesso ce ne sono sempre meno e molti sono proprio meccanici che hanno imparato il mestiere dagli italiani.  E’ chiaro, non voglio difendere i colonizzatori, che hanno anche ucciso. In un monastero, ad esempio, una volta uccisero 400 persone. Il giudizio, però, deve essere più complesso.

Tornando alla questione delle tribù volevo chiederti se i conflitti nascono per questioni locali o sono anche alimentati dall’esterno.

No, almeno nella zona dove sono stato io i conflitti tribali vanno indietro di anni e spesso nascevano da furti di bestiame o di terra. Da questi episodi poi si scatenavano guerre che terminavano con il dominio di una o dell’altra tribù o con la pace.

Di cosa ha ancora bisogno l’Etiopia di oggi, tu che ha una visione di lungo periodo.

C’è ancora il problema delle tribù. Questo è ancora il vero problema. E poi c’è il problema della corruzione, anche se da quando sono tornato in Italia sono rimasto impressionato da come qui il problema sembra essere nel Dna degli italiani. In Etiopia c’è una forte corruzione a livello sanitario e sui farmaci. Ci sono cliniche che il governo rifornisce di medicine,ma poi ci sono dottori che pur lavorando degli gli ospedali, rubano le medicine e le rivendono in farmacie aperte da loro stessi. Questo fatto l’ho constatato di persona, spesso portando gente povera in ospedale e dove mi sentivo dire che le medicine andavano prese nelle farmacie esterne. L’altro grande problema, come dicevo, è quello tribale. Noi nel medioevo ci siamo “sbudellati” in modo feroce e quindi non dobbiamo meravigliarci se accade anche altrove. Io penso che su questo fatto del tribalismo il Vangelo li abbia un po’ aiutati, anche l’aspetto tribale è ancora molto forte. Io ho assistito alla guerra tra Gedeo e Gugi alla quale hanno partecipato anche i cristiani che si sono “sbudellati” anche loro a vicenda. Ricordo che una volta in una missione al confine tra i Gedeo e i Gugi, in una zona dominata proprio dai Gugi, mi fu detto: “Questa è una chiesa Gugi e io non voglio i Gedeo”. E gli risposi: “Se fai queste differenze allora neanche io sono Gugi e quindi non dovrei essere qui. Questa chiesa è aperta a tutti e quel Dio in cui credi anche tu perché sei stato battezzato ama sia i Gedeo che i Gugi. ”

Quindi la Chiesa è riuscita un po’ a mitigare i conflitti.

Diciamo che qualcosa ha fatto, però ci vuole molto tempo. Guarda la guerra civile che c’è in Sudan: li la maggior parte sono cattolici. Ma li la guerra non è dovuta alla religione ma allo scontro tra Presidente e Vicepresidente e alle relative tribù.

Sono fenomeni complessi da capire: le tribù, i conflitti e il loro rapporto col governo.

Si. Devi vivere là per capirla. La può capire uno che ha studiato un po’ il Medioevo. Per fare un paragone, è come la guerra che ci fu fra Guelfi e Ghibellini qui da noi. Lì in Etiopia c’è una storia complessa di secoli fatta di tribù, conflitti, guerre, tradizioni. Poi oggi c’è il grosso problema delle multinazionali che stanno entrando.

Ecco, che ruolo hanno le multinazionali?

Il governo Etiope sta stando ettari e ettari di terreno alle multinazionali cinesi, indiane e pakistane per le loro coltivazioni togliendolo alla gente. Certo i cinesi aprono fabbriche e portano anche lavoro, ma siccome li la manodopera non costa nulla c’è un forte sfruttamento e questo è un altro grosso problema dell’Etiopia di adesso ci sono oltre 12.000 cinesi e le aziende italiane ormai faticano ad entrare nel mercato anche per via del passato colonizzatore degli italiani. Il governo accetta le multinazionali proprio perché creano lavoro anche se sfruttato. Ad esempio adesso stanno aprendo moltissime serre per piante e fiori, ma il lavoro li dentro rovina molto la salute a causa dei prodotti chimici utilizzati.

Si crea il classico ricatto “lavoro o salute”.

Si la dinamica è quella. Però chi vive ancora nelle zone dove c’è agricoltura e pastorizia tradizionale vive in modo più umano e più semplice.

Sul pian culturale, le tribù conservano ancora le loro tradizioni o queste si stanno perdendo?

Ora le tradizioni si stanno perdendo. Però quando andai giù io devo dire che le tradizioni le portavano avanti e da differenza dei protestanti, ma non perché abbia qualcosa contro di essi, noi abbiamo sempre cercato di mantenerle queste tradizioni.  I protestanti erano più duri: se vuoi essere cristiano devi cosi, cosi, rifiutare ad esempio la poligamia, e via dicendo. Noi invece abbiamo sempre accettato in Chiesa anche chi aveva più di una moglie. E’ un cammino anche quello. Ricordo il capo di una tribù dove ho lavorato, aveva tre mogli era una persona stupenda: mi ha dato tanti terreni per la scuola e la clinica. C’era una buona relazione però mi diceva: “Io ho tre mogli e non posso diventare cristiano” . Io gli dissi: “Ma tu non preoccuparti, tieni le mogli e dai da mangiare a tutte. Se credi nell’aldilà vai sicuro dove c’è il Signore”. Poi dipende anche da come ti poni tu nei loro riguardi. Non tutti i missionari sono come me nel senso che io non è che sono migliore degli altri, però se hai una visione più aperta della loro  realtà li accetti così come sono fatti e non hai la pretesa di cambiarli o di renderli come vuoi tu.

Bisogna accettare la loro complessità…

Certo. Hanno anche loro secoli di storia e tu devi rispettarla questa storia. Poi noi abbiamo fatto qualcosa nel rendere le lingue locali da orali a scritte. Abbiamo tradotto l’Antico Testamento e il Nuovo, abbiamo fatto grammatiche, vocabolari. Le tribù su questo lavoro hanno realizzato i loro libri. Il nostro Vescovo, che era un poliglotta e conosceva tante lingue, andava in una tribù, stava lì un po’ di giorni, ascoltava gli anziani e soltanto dal loro parlare ricavava la grammatica. Io ho studiato il Gugi con una grammatica fatta da lui. E’ un po’ quello che è accaduto da noi nel passato dove dalla tradizione orale si è passati alla scrittura. Noi abbiamo cercato di fare un lavoro per valorizzare le loro lingue e il Governo lo ha portato avanti anche con un’altra intenzione: quella del divide et impera. Lo ha fatto, cioè, per far rimanere separate tra loro le tribù stesse attraverso la lingua. Ora nelle scuole le materie di base, ad esempio la matematica, si insegna nella lingua locale e poi imparano anche l’amarico. Prima, invece, l’amarico era la lingua nazionale e dovevi imparare quella. In alcune zone, come l’Oromia, l’amarico si insegna solo dopo la quinta elementare e la cosa è un disastro perché un paese deve avere una lingua nazionale sennò come si capiscono tra loro?

Hai una visione approfondita e nel lungo periodo dell’Etiopia e delle sue trasformazioni.

Si, le trasformazioni, i cambiamenti. Poi, sai, alla fine ti leghi ad un paese. Anche quando c’è stata la guerra ho rischiato la vita ma non avendo famiglia non ho dovuto rendere conto a nessuno.  Mi ricordo che quando ci fu la guerra tra Gedeo e Gugi i capi mi dissero “vai via perché qui non sei al sicuro”. Io invece scelsi di rimanere; mi diedero tre o quattro kalashnikov per difendermi e con quelli ho salvato la mia missione. Siamo rimasti e abbiamo rischiato. Poi quando è tornata la pace la gente ci ha detto: “Vi ammiriamo perché siete rimasti rischiando la vostra vita”. E questo vale più di tutte le parole del Vangelo che puoi dire. Ricordo che all’inizio le suore avevano paura e volevano andare via e gli dissi: “Se ora andate via anche voi chi curerà i feriti? Io non sono un infermiere”. Poi hanno deciso di rimanere e penso che abbiano fatto la scelta migliore.

Le Chiese o le missioni sono mai state oggetto di attacchi durante le guerre o sono stati rispettati?

No, non abbiamo mai avuto problemi perché anche quando ci sono state guerre tribali queste non sono mai state basate sulla religione. C’è stato un periodo, quando Menghistu Hailè Mariàm (dittatore dal 1977 al 1987) ha lasciato l’Etiopia e si è creato un vuoto di potere, in cui abbiamo rischiato di più. Ricordo che ero in una missione e la sera sparavo dei colpi di Kalashnikov per dire che potevamo difenderci. Non avrei mai sparato in basso, ma in quel modo ci siamo difesi sennò avrebbero distrutto la missione oltre a fare del male anche a noi. Sono tutte situazioni che fanno capire alla gente che se stai li anche in situazioni difficili, che se le suore curano tutti a prescindere dalla tribù, non stai cercando di colonizzarli. In questo modo anche nel tempo di ricordano di quello che hai fatto e dell’aiuto che hai portato. Spesso ho avuto più problemi con i miei capi religiosi che con le tribù e la gente locale.

Sulla vicenda dei migranti, tu che hai due punti di vista, quello qui e quello in Africa, che idea ti sei fatto del fenomeno?

Molti vengono dall’Eritrea di cui non si da nulla come della Corea del Nord. Li c’è una dittatura bestiale e molti stanno scappando da una situazione insopportabile: li devono fare il servizio militare fino a 50 anni e c’è una situazione spaventosa. Ci sono tanti che vengono da situazioni non più sopportabili e ci sono poi quelli che arrivano perché attratti dalla nostra civiltà occidentale. Noi italiani abbiamo una grande capacità di accoglierli ma il Governo non ha la stessa capacità di accoglierli nel modo giusto. Non puoi mettere cinquanta persone su a Schiavi, tutti uomini a non fare nulla.

Diventa un ghetto.

Si diventa un ghetto, non possono integrarsi. La voglia di accoglienza c’è ma è il sistema che non funziona. Leggevo che ad Agnone si lamentavano della presenza di troppi migranti. Il problema è che ci si è costruito anche un business sopra e questo non è giusto. Spesso ci sono reazioni della gente come a Gorino e al Nord c’è la Lega che non ha sentimenti di accoglienza, ma gli italiani in generale sono accoglienti. Su questo problema, poi, sono coinvolte anche la Chiesa e la Caritas. Bisognerebbe organizzare meglio l’accoglienza: distribuire i migranti in modo omogeneo e non collocarli in istituti in tanti. Quello di adesso non mi sembra il modo migliore per accoglierli: si sentono esclusi e si favorisce l’integrazione.  E’ un problema serio: il Governo deve rivedere alcune politiche .Non basta solo prendere soldi dall’Europa ma bisogna anche aiutarli a integrarsi in questa realtà.

Per chiudere facciamo un salto di spazio e di tempo. Qual'è il tuo rapporto con Castiglione Messer Marino e l’Abruzzo? Qui hai fatto il corso di inglese, il catechismo, l’attività parrocchiale…

Come ti dicevo io sono stato in Abruzzo già dal 1976 e quindi il rapporto con questi territori è lungo. A Castiglione mi sono trovato molto bene. La gente è molto ospitale, molto più di noi del Nord, soprattutto bergamaschi. Noi non siamo così ospitali e qui sono stato davvero bene in tutti i sensi. Poi Castiglione è un paese con una fede che non è facile da trovare altrove. Mi dispiace andare via, qualcuno è anche un po’ arrabbiato come me perché me ne vado. Ma davvero,  mi sono trovato bene. Anche perché negli anni in cui sono andato via sono sempre tornato a Castiglione in vacanza. Qui, poi, ci sono diversi ragazzi che venivano al seminario a Sulmona e ai campi scuola a Pescocostanzo. Con molti di loro, che oggi sono grandi o padri di famiglia, siamo sempre rimasti in contatto. 

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