Partecipa a Alto Molise

Sei già registrato? Accedi

Password dimenticata? Recuperala

I riti per accogliere i morti nella notte tra il 1 e il 2 novembre, la tavola apparecchiata

Condividi su:

In molte regioni italiane ritroviamo determinati riti per accogliere i morti in queste giornate. In Puglia, ad esempio, la sera precedente il giorno dei morti, è usanza apparecchiare la tavola e preparare da mangiare per i defunti, i quali, secondo la tradizione, ne beneficeranno durante la notte tra il 1° e il 2 di novembre. Secondo altre usanze, il cibo andrebbe posato sui davanzali delle finestre affinchè i morti possano apprezzare questi doni culinari, anche solo attraverso l’olfatto. leggi QUI

In queste giornate non era raro intravedere gli spiriti, i luoghi di più facile incontro con queste presenze, nel folclore meridionale, erano sicuramente i crocevia, in cui il defunto, confuso dalla pluridirezionalità che questi posti propongono, diveniva aggressivo e poteva attaccare i passanti, in alternativa vi erano le fontane, che di notte divenivano luoghi di stazionamento degli spiriti.

Infine c’era il rischio, passando davanti ad una chiesa, di assistere incautamente alla cosiddetta “messa dei morti”, che si ritrova spesso nei racconti dei contadini di moltissime regioni della Penisola, e di correre il pericolo del contagio di morte.

 

In Sicilia invece, durante questa ricorrenza, secondo la tradizione, le anime dei morti lasciano regali ai bambini e vengono onorate e ricordate con grandi banchetti consumati in loro onore. 

In Sardegna era usanza andare a visitare il cimitero e prima di cenare i bambini andavano in giro per il paese a bussare alle porte, dicendo “Morti, morti…”, ricevendo in cambio dolci, frutta secca e a volte denaro. Al ritorno, si mangiava con tutta la famiglia riunita. Finito il pasto non si sparecchiava, lasciando tutto intatto per gli spiriti dei defunti che avrebbero visitato la casa di notte. Questa stessa usanza si riscontra in Abruzzo, in cui si aggiungeva la decorazione delle zucche.

In Calabria, nelle comunità italo-albanesi, si andava invece in corteo verso i cimiteri e, dopo benedizioni e preghiere per entrare in contatto con i defunti, si preparavano dei banchetti direttamente sulle tombe, invitando anche eventuali visitatori a partecipare.
A Bormio (SO), la notte del 2 novembre si mette sul davanzale una zucca riempita di vino e, in alcune case, si imbandisce la cena.
In Piemonte era uso, per cena, lasciare un posto in più a tavola, riservato ai defunti che sarebbero tornati in visita.
Ciò accade anche a Val d’Ossola, in cui, dopo la cena, tutte le famiglie si recavano insieme al cimitero, lasciando le case vuote in modo che i morti potessero entrare a ristorarsi in pace. Il ritorno alle case era poi annunciato dal suono delle campane, affinchè i defunti potessero ritirarsi senza venire infastiditi.
Diffusa è anche l’usanza della questua fatta da schiere di ragazzi o di contadini e artigiani che vanno di casa in casa cantando un’appropriata canzone.

 

In Emilia Romagna erano invece i poveri ad andare di casa in casa a chiedere “la carita’ di murt”, ricevendo cibo dalle persone da cui bussavano.

A Castelpoggio, in provincia di Massa Carrara, si festeggia il bén d’i morti, in cui si distribuisce cibo ai più bisognosi e le cantine offrono a tutti un bicchiere di vino. Ai bambini si mette al collo la Collana di Baduci, un filo di castagne bollite con una mela al centro, il tutto in onore ai propri morti, al fine di celebrarli e rasserenarli.

In Friuli, per questa ricorrenza, i contadini lasciano un lume acceso, un secchio d’acqua e un po’ di pane sul tavolo prima di andare a dormire, mentre nel Vigevanasco (Vigevano) e in Lomellina si usa mettere in cucina un secchio, l’acqua fresca, una zucca di vino, piena, e sotto il camino il fuoco acceso e le sedie attorno al focolare.

Sempre in Friuli, come anche nelle vallate delle Alpi lombarde, si crede che i morti vadano in pellegrinaggio a certi santuari o in certe chiese lontane dall’abitato, e chi vi entrasse in quella notte le vedrebbe affollate da una moltitudine di gente che non vive più e che scomparirà al canto del gallo o al levar della “bella stella”. 

In questo frangente temporale non vagavano solo le anime dei defunti, ma anche presenze più temibili come demoni e streghe. E’ d’uso in molti luoghi d’Italia, infatti, accendere i falò di Ognissanti, fuochi rituali che illuminano la strada ai morti ma che distruggono le potenze demoniache.

Un esempio ancora oggi perpetuato è il “Fucacoste e cocce priatrorje” di Orsara di Puglia, che va dalla sera del 1° novembre all’alba del giorno seguente. Nei giorni che precedono la ricorrenza, vengono preparate le “cocce priatorije”, zucche con sembianze umane; viene accatastato il legname necessario al falò e si preparano vino, pane, patate, dolci tipici e altri ingredienti per le pietanze che saranno consumati nella notte del 1° novembre, quando in ogni stradina della città si terrà  un banchetto a base di piatti “poveri” ma gustosi e in tutto il paese saranno esposte centinaia di zucche lavorate in modo creativo e illuminate al loro interno, mentre verranno nel frattempo accesi i falò di rami di ginestre in onore ai defunti. Anche qui gli avanzi vengono riservati ai morti, lasciandoli disposti agli angoli delle strade.

Per finire, parlando di morti, non si può omettere l’esperienza del lutto.

Nel Sud è infatti usanza, quando muore un proprio caro, coprire tutti gli specchi della casa, in modo da evitare che lo spirito, nel fissare la propria immagine, rimanga imprigionato nell’oggetto riflettente.

Fino a pochi anni fa, in molte regioni meridionali, non era inoltre raro, in queste situazioni, assoldare delle “prefiche”, ovvero delle donne che, vestite con abiti scuri e coperte in viso con un velo nero, si recavano presso la dimora in cui giaceva il defunto e avevano il compito di compiangerlo e decantarne le virtù, spesso arrivando a grida e lamenti molto più forti di quelli degli stessi parenti del morto. Questo “pianto rituale” aveva origini pre-cristiane, si riscontra infatti nelle civiltà greca e romana, e proprio dai romani deriva il loro nome, “prefica” viene infatti dal latino “praeficere”, ovvero “stare a capo, guidare”, da intendersi, in questo contesto, come guidare il pianto.

 

Condividi su:

Seguici su Facebook