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Primo maggio, si festeggia il lavoro che non c'è

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Istituita in Italia nel 1891, prima di sparire dai calendari nel 1925 per poi ricomparire 20 anni dopo, la festa del 1° maggio nacque per ricordare ed onorare le battaglie operaie createsi per la conquista di un monte ore di lavoro quotidiane.
Frutto di quelle lotte sono, infatti, le 8 ore di lavoro che riempiono le giornate degli occupati.
Il 1945 è l’anno in cui la Festa del primo maggio riprende piede e da allora l’Italia ha attraversato periodi migliori e peggiori.

Altomolise.net, quindi, si è chiesto: ma, allo stato attuale delle cose, sarà giusto festeggiare?
La risposta, purtroppo, è stata un secco NO. Vi spieghiamo perché.
Oggi il mondo del lavoro è un nient’altro che un microcosmo con regole a sé stanti che si auto-regola tenendo conto solo dell’aspetto economico; non a caso, la crisi è stato il motivo principale che ha indotto numerose aziende alla chiusura e, di conseguenza, a licenziamenti. Al giorno d’oggi, infatti, una delle uniche cose certe per un adulto è l’ansia che proviene dalla possibilità di perdere il proprio lavoro.
E per quanto riguarda i giovani?
La situazione, se possibile, è ancora peggio. L’Italiano medio, infatti, ben presto impara che “L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro” quindi cresce con la convinzione di avere diritto ad un lavoro e che più si impegnerà per ottenerne uno e maggiori saranno le probabilità che riuscirà a trovare un impiego buono e ben retribuito. In questo contesto, e con questi presupposti, gli Italiani, finite le scuole superiori, decidono un corso di studi universitari che, dopo tante fatiche, li pregerà del titolo di “dottore” ma, soprattutto, che li renderà preparati ad un tipo di professione.
Tutto ciò rappresenta la norma, la realtà purtroppo è di gran lunga differente.

Dopo essere cresciuti con il nostro bel sogno fatto di grandi speranze, intraprendiamo la strada dell’università dove scopriamo, molto spesso, professori che si atteggiano a bulli di quartiere nei confronti di assistenti e ricercatori; dopo tre, cinque, o più anni, passati a seguire lezioni senza senso, di materie inutili (molto probabilmente piazzate in una data facoltà per non licenziare altri docenti) ci si ritrova a fare colloqui su colloqui di lavoro. Ci si sente dire “Sei stato veloce ma ora ti serve esperienza!”
Come colmare questa lacuna?
Facile: tocca fare la gavetta.

Accade, perciò, che il neo-laureato decida di privarsi del proprio orgoglio (talvolta anche della propria autostima) per ridursi a fare tirocini su tirocini. Il tirocinio, per esempio, è una forma educata che esprime un concetto elementare: io, datore di lavoro, ti do la possibilità di imparare una professione facendoti osservare tutto ciò che si fa; il prezzo di tutto questo? Niente di che: dovrai solo lavorare per la mia azienda gratis, privandoti di qualunque regolare diritto. Lavorerai tutti i giorni, talvolta anche durante i festivi. Ti saranno riconosciuti pochissimi meriti e alla fine FORSE potrai ottenere un contratto.

Questo è ciò che accade all’italiano medio. Marco o Maria, perciò, passano i due anni (come minimo) successivi alla tanto desiderata laurea –attesa così ardentemente per una stringente voglia di autonomia ed indipendenza dai propri genitori- facendo tutto ciò che i loro superiori non sanno o vogliono fare. Trascorso il tirocinio, prolungato con questa o quella motivazione, Marco e Maria si vedono il primo contratto tra le mani: full time a tempo determinato. Scade il primo ed ecco il secondo, il terzo finché l’imprenditore, per motivi di legge, si trova obbligato ad assumere i due professionisti, se non vuole rinunciare a loro.
Marco e Maria hanno circa 30 anni quando hanno il loro primo contratto full time a tempo indeterminato; ovviamente tutto ai minimi sindacali.

Trascorrono gli anni e i ragazzi, ormai un uomo ed una donna, hanno 2 figli e vivono ancora in affitto con uno stipendio che basta a sopravvivere finché la ditta inizia ad avere problemi; in un primo momento gli stipendi sono a strappo e, anche se sia illegale farlo, i capi fanno capire ai dipendenti che mettersi in malattia, chiedere ferie o straordinari sia vietato. Dopo anni di fatiche si ritorna alla gavetta: tante ore e tanti compiti per avere uno stipendio misero. In qualche caso il lavoro viene visto come una benedizione motivo per cui è necessario tenerselo stretto, anche se viola tutti le leggi a tutela del lavoratore. Avanti nel tempo, nonostante gli sforzi di tutti gli impiegati, l’azienda affonda sempre di più tra i debiti ed inizia l’avventura della cassa integrazione. Per Marco e Maria inizia un’altra sfida.

Eravamo in epoca illuminista quando William Wilberforce, deputato bretone, scatenò cielo e terra per salvaguardare i diritti degli schiavi che venivano sfruttati dai lords inglesi; sono trascorsi secoli dalle prime lotte operai e tanti anni ci separano dall’autunno caldo che riunì sindacati e studenti in cerca di diritti. La storia per una giustizia sul lavoro è lunga ed ampia tuttavia oggi l’Italia è ancora al punto di partenza. Cambiano le parti in gioco ma esistono ancora sfruttatori e sfruttati.
Sebbene l'unica possibilità, allo stato attuale, sia quella di fare il proprio dovere con diligenza e sperare in un futuro migliore, ci chiediamo: ma allora che festeggiamo?

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