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Festa della repubblica, l'imbroglio elevato a celebrazione

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Si celebra oggi un imbroglio storico-politico: la nascita della repubblica. Un regime di fatto e non di diritto, visto che né nel 1946 né in seguito la Cassazione proclamò il passaggio ufficiale alla nuova forma istituzionale. Il difficile parto avvenne dopo il referendum del 2 giugno 1946. Su quella consultazione elettorale pesano troppi dubbi circa la legittimità e la regolarità delle operazioni. La scelta di sottoporre la monarchia al giudizio popolare attraverso un referendum, non fu un’istanza proveniente dalla nazione, dal popolo, ma ebbe la sua genesi nelle segreterie di alcuni partiti di sinistra, che volevano approfittare della situazione di gravità e incertezza creatasi dopo la caduta del regime fascista e la sconfitta militare, per instaurare una repubblica che fosse il primo passo verso un sistema di tipo socialista. Vittorio Emanuele III era responsabile di non aver ostacolato Mussolini e il fascismo, di non aver impedito l’infamia delle leggi razziali e la dissennata entrata in guerra al fianco della Germania nazista. Queste erano le “colpe” della dinastia Sabauda, pesanti accuse di connivenza e correità col fascismo, e a nulla valse il merito di aver unificato la Penisola sottraendola al dominio di sovrani stranieri e più recentemente di aver organizzato e guidato le fila della congiura che portò alla “defenestrazione” del duce nella famosa seduta del Gran Consiglio del fascismo il 25 luglio del 1943, né l’aver portato l’Italia fuori dalla guerra trattando con gli Alleati una pace separata. “Un Re che perde una guerra deve andarsene” sentenziava Enrico De Nicola, il futuro presidente della nascente repubblica, fungendo da portavoce dei partiti dell’esarchia. Così, per motivazioni di politica interna frammiste e sommate a questioni internazionali e a decisioni prese dalle potenze vincitrici, si arrivò a sottoporre la monarchia al giudizio del popolo. La condanna politica e storica era già stata emanata dai suoi nemici socialisti e comunisti, si trattava di tradurla materialmente in una nuova istituzione che rappresentasse una definitiva e assoluta soluzione di continuità con il passato. Dalla ricostruzione degli avvenimenti che precedettero il referendum del giugno 1946 e lo seguirono immediatamente, non è certo possibile affermare che si trattò di una competizione elettorale completamente libera e democratica. Il territorio italiano era materialmente occupato dagli eserciti delle potenze vincitrici, mentre i ministri degli Esteri di queste ultime erano impegnati nella conferenza di Parigi a discutere sul futuro dell’Italia, sulle riparazioni da comminarle, sulle mutilazioni territoriali cui sottoporla. Inoltre, se era vero che c’era un governo in carica, era altrettanto vero, come lo stesso De Gasperi ricordava durante i comizi, che esso era legato agli Alleati dagli accordi armistiziali e dunque la sua autorità era subalterna a quella dei vincitori. Si aggiunga che da fonti attendibili, come quelle Vaticane, risulta che dalla Jugoslavia comunista arrivavano ingenti aiuti in denaro e armi alle organizzazioni repubblicane di ex partigiani e che addirittura le divisioni di Tito erano pronte ad un’azione di forza su Trieste pur di ottenere il passaggio alla repubblica. Tutte circostanze che incontrovertibilmente potevano vulneravano la libertà e la sovranità del popolo italiano. Oltre a queste considerazioni di politica internazionale, la regolarità delle operazioni elettorali fu inficiata e infirmata da numerosi e documentati episodi che inquinarono dall’interno il sistema politico. La prima considerazione a tale riguardo è che il governo in carica, cioè il responsabile di tutta la materia elettorale, era decisamente schierato su posizioni repubblicane e tutti i settori della pubblica amministrazione, dai prefetti, ai questori, agli ausiliari di polizia, erano fedeli esecutori della volontà governativa, di un governo, occorre ricordarlo, di autoinvestitura. E’ del tutto evidente come un ministro dell’Interno o della Giustizia, se in malafede, possa aver agito con effetti manipolatori sulle elezioni al fine di modificarne i risultati secondo le proprie aspettative. Altri elementi che possono aver influito negativamente sulla regolarità del referendum sono senza dubbio i disguidi e gli errori, colposi e dolosi, che si verificarono nella distribuzione dei certificati elettorali. Risulta infatti che moltissimi elettori, di comprovata fede monarchica, non ricevettero affatto il certificato elettorale, con il chiaro intento di escluderli deliberatamente dal voto. Molti recandosi alle urne si sentivano rispondere dal presidente di seggio che risultava che essi avessero già votato, quindi qualcuno si era fraudolentemente sostituito ad essi. Questi esempi sono solo alcuni dei disguidi e delle irregolarità che si verificarono prima e durante le elezioni, ciascuno dei quali, singolarmente, comporterebbe, in uno Stato di diritto, l’immediato annullamento di tutta la consultazione elettorale e la convocazione di nuovi comizi. Evidentemente nell’Italia del 1946 non vigeva un regime propriamente liberaldemocratico e garantista. In questo clima di irregolarità, di sopruso, di intimidazione, di violenza e di illegalità si arrivò dunque alla data delle elezioni. Date le premesse i risultati non potevano essere quelli che furono e infatti pesanti dubbi gravano sull’esito di quel referendum e a distanza di anni non è possibile affermare, alla luce di quanto risulta da più fonti e a rigore della più elementare logica, che la nascita della repubblica sia scevra da sospetti circa la sua legittimità. Dopo una prima fase in cui i dati davano per vincente la monarchia, ad un certo punto, dopo un sospetto silenzio da parte delle istituzioni governative, si verificò l’improvviso e definitivo vantaggio repubblicano. Un sorpasso davvero inspiegabile dato il naturale atteggiamento della popolazione, votata alla tradizione e al moderatismo, e alla considerazione che nemmeno dal nord Italia erano arrivate, come ci si aspettava, le valanghe di voti in favore della repubblica. Inoltre la quasi totalità dell’elettorato cattolico era monarchico e le donne, che da sole rappresentavano più della metà degli aventi diritto, subivano il fascino della famiglia reale e ascoltavano i consigli dei parroci che le invitavano a votare per la monarchia. Che non tutte le cose fossero andate secondo la legalità e il rispetto delle norme è un dato difficilmente smentibile alla luce dei riscontri documentali. Gli stessi Alleati all’epoca espressero dubbi circa la regolarità delle elezioni e i risultati del referendum vennero subito contestati e impugnati dai sostenitori della monarchia. Tra le varie tesi sostenute dai monarchici, alcune delle quali per il vero risultano difficilmente documentabili e verificabili, due in particolare appaiono supportate da elementi logici e razionali, ma anche politici, difficilmente contestabili: la questione del quorum e quella dei milioni di cittadini italiani esclusi dal voto. La maggioranza repubblicana del 54 per cento venne calcolata sul totale dei soli voti validi, non su quello complessivo dei votanti. E’ evidente come quella percentuale si fosse abbassata drasticamente se il calcolo fosse stato effettuato sul totale dei votanti, come chiedevano i monarchici. Se la Cassazione avesse recepito questa richiesta, il vantaggio repubblicano sarebbe stato di circa duecentocinquantamila voti, una maggioranza davvero irrisoria, assolutamente insufficiente, in termini politici e morali, a definire il passaggio istituzionale. Soprattutto in considerazione del fatto che, e siamo alla seconda questione, a diversi milioni di cittadini italiani non venne permesso di esprimere il proprio voto: gli emigrati all’estero e gli italiani delle colonie, i prigionieri di guerra, i profughi, le intere province di Trieste, Gorizia, la Venezia Giulia, comprese Pola e Fiume, Bolzano e il Trentino, gli italiani della Dalmazia, dell’Albania e del Dodecaneso. Dunque milioni e milioni di elettori non considerati tali e non ammessi al voto né allora, né mai che, unitamente al milione e mezzo di schede bianche e nulle, rendevano politicamente e moralmente inaccettabile l’irrisoria maggioranza repubblica. Lo svolgimento di quel referendum necessitava di condizioni di libertà, di legalità e di rispetto delle regole che, con tutta evidenza, in quel periodo non erano garantite. Tutte argomentazioni che permettono di dubitare del fatto che la transizione alla repubblica possa fregiarsi in pienezza dei crismi della legittimità e della democraticità, poiché su queste ebbero la meglio le “giacobine impazienze” dei fanatici e dei mestatori, tutti elementi che inficiarono il prestigio e l’autorevolezza delle nascenti istituzioni repubblicane e probabilmente lo fanno ancora oggi poiché le questioni morali, più di quelle politiche, non si prescrivono.
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