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Don Pino Puglisi, 32 anni dall’assassinio: il sorriso che sfidò la mafia

Il parroco di Brancaccio, ucciso nel 1993, resta simbolo di resistenza civile e di speranza: la sua eredità continua a interpellare Chiesa, istituzioni e cittadini.

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Era il suo 56º compleanno quando Padre Pino Puglisi, parroco impegnato nel quartiere Brancaccio, venne ucciso a Palermo per mano della mafia. Trentadue anni dopo, il suo sacrificio continua a parlare nel silenzio delle tante incompiutezze, ma anche nella speranza che ancora germoglia nei cuori di chi crede in una Sicilia libera dalla criminalità.

Don Puglisi non fu un sacerdote di comodi silenzi o di retorica: scelse di stare accanto ai più fragili, rivolgendosi in particolare ai giovani, alle famiglie in difficoltà, a chi viveva in una delle zone più degradate della città. Aveva fondato il Centro “Padre Nostro” come luogo di accoglienza, educazione, contrasto alla cultura della mafia, offrendo alternative sociali, umane e spirituali. E fu proprio questo – la scelta di non piegarsi alla logica mafiosa dell’omertà – a costargli la vita. I boss vedevano in lui una minaccia non per le armi, ma per la comunità: con la sua testimonianza incarnava il messaggio che “ognuno può fare qualcosa”. La sera del 15 settembre 1993, mentre rientrava a casa, fu colpito dai killer mandati da Cosa nostra. Si racconta che all’assassino, avvicinatosi ormai per sparare, disse: «Me l’aspettavo». Un sorriso finale, un’immagine che ha segnato la memoria collettiva.

Nel 2013, don Puglisi è stato proclamato Beato –  nonché primo martire della mafia riconosciuto tale dalla Chiesa cattolica. Negli anni, il suo ricordo non è rimasto rituale né solo commemorativo: il Centro Padre Nostro continua la sua attività, numerose scuole e spazi sociali portano il suo nome, eventi, mostre, convegni vengono organizzati per mantenere vivo il suo insegnamento. A 32 anni di distanza, è doveroso chiedersi quanto del suo sogno sia diventato realtà. Molti riconoscono che il suo operato ha acceso una luce nella lotta contro la mafia non solo come fenomeno giudiziario, ma culturale. Eppure persistono zone – periferie urbane e quartieri difficili – dove il degrado, la disoccupazione e la mancanza di opportunità continuano a favorire l’illegalità. I giovani restano al centro delle sue attenzioni, ma le strutture e i servizi a loro destinati sono ancora spesso insufficienti. Ricordare è necessario, ma non basta: la memoria di don Puglisi deve tradursi in azioni concrete per contrastare le mafie di oggi e promuovere giustizia e dignità.

Il suo martirio non è un fatto del passato, ma una chiamata rivolta a ciascuno di noi. Ai cittadini per non restare indifferenti, alle istituzioni per essere presenti, ai giovani per credere che il cambiamento è possibile anche a partire da un gesto di solidarietà, da una parola di coraggio. Oggi, 15 settembre, non celebriamo un anniversario ma ciò che don Puglisi ha seminato: speranza, sensibilità, responsabilità. È un compito che si rinnova ogni giorno, soprattutto nei luoghi in cui la mafia trova ancora spazio. Perché la sua eredità non è fatta di ricordi, ma di semi che attendono di dare frutto.

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